Ogni uomo mente, ma dategli una maschera e sarà sincero scriveva Oscar Wilde.
L’uomo non riesce ad avere una visione ampia e oggettiva della realtà, la sua visione è ristretta, soggettiva e dunque distorta, fatta di convinzioni proprie rispetto a sé e al mondo.
Ognuno di noi seleziona accuratamente ciò che gli pare possibile mostrare e ciò che ritiene sia meglio celare.
A volte ci riteniamo non normali, inaccettabili, inadeguati. Pertanto indossiamo una maschera come filtro che poniamo fra noi e gli altri e che caratterizza ogni nostro momento di relazione e interazione sociale.
Questo filtro, di per sé, non è un problema è, anzi, inevitabile e spesso ci aiuta in situazione sociali specifiche come, ad esempio, quella lavorativa in cui siamo chiamati ad interpretare un ruolo specifico con annessi una serie di importanti atteggiamenti e comportamenti.
Può diventare un problema quando viene a mancare la consapevolezza della maschera che indossiamo, in quanto ciò è sintomo della scarsa conoscenza che abbiamo di noi stessi. In questo caso è possibile che inconsapevolmente ci nascondiamo dietro una maschera che rappresenta il nostro sé ideale da utilizzare in modo rigido e passivo. Ci identifichiamo con tale maschera senza la possibilità di vedere altro di noi. Le nostre potenziali e varie forme di espressione si riducono ad una sola; costruiamo il nostro sé come difesa dal creare conflitti con gli altri e, ancor più, con noi stessi. Questo sfocia in uno stato di ansia, panico e persino fobie.
Quando iniziamo a chiederci chi siamo davvero e cosa vogliamo, impariamo a conoscere le nostre risorse, oltre a saper comunicare meglio con i nostri limiti. Il panico, perdendo la funzione di allerta e difesa, diminuisce fino a scomparire.
Se proviamo ad immaginare la nostra vita come un grande palcoscenico, capiamo facilmente che per ogni scena sarà necessario indossare un costume ed una maschera adeguati. Solo la consapevolezza che noi siamo molto di più di ciò che interpretiamo in quel momento, può trasformarci in agenti attivi della nostra vita.
Oscar Wilde sosteneva: una maschera ci dice più di un volto.
Quando indossiamo una maschera diventiamo quella maschera. Durante il carnevale con il travestimento possiamo essere chi vogliamo. Fin dai tempi degli egiziani il carnevale è la festa della finzione, del fingerci qualcuno.
Tutti i personaggi che interpretiamo indicano la nostra capacità di essere molti. Indossare una maschera ci permette di andare oltre l’artificio di essere un unico “io”.
Fernando Pessoa, il poeta fingitore, nei suoi romanzi ha indossato molteplici maschere: Alvaro de Campos, Ricardo Reis, Alberto Caeiro, per citarne solo alcune fra le più famose.
Mi sento multiplo. Sono come una stanza dagli innumerevoli specchi fantastici che distorcono in riflessi falsi un’unica anteriore realtà che non è in nessuno ed è in tutti. [Fernando Pessoa]
Se ricerchiamo nella storia, diversi psicoanalisti hanno frammentato la nostra persona in più parti: Freud con l’Io e Super-Io; Erich Berne con l’Io genitore, l’Io adulto, l’Io bambino e molti altri ancora.
Scopriamo così che le parti che ci abitano non sono solo 3, 4 o 10, ma tendono all’infinito.
Per Luigi Pirandello siamo maschere. Siamo come grandi ed evoluti lumaconi o molluschi. Abbiamo bisogno del nostro guscio che, metaforicamente, è rappresentato dalla maschera.
“Uno, nessuno e centomila” è il suo romanzo più famoso, iniziato nel 1909, uscì nel dicembre del 1925 dopo una lunghissima gestazione. La sua prima edizione fu sotto forma di romanzo a puntate pubblicate nella rivista La fiera letteraria. Nel 1926 uscì come romanzo intero in unico volume. Fu l’ultimo romanzo pubblicato da Pirandello, quello che riuscì a sintetizzare il suo pensiero nel modo più completo. Lui stesso lo definì: il più amaro di tutti, profondamente umoristico, di scomposizione della vita.
Il protagonista, Vitangelo Moscarda, chiamato Gengé dalla moglie, è una persona ordinaria che ha ereditato da giovane la banca del padre. Vive di rendita, non occupandosi di nulla. Un giorno, in seguito all’osservazione della moglie, la quale sostiene che il suo naso è leggermente storto, per Gengé inizia una vera e propria crisi d’identità che lo porterà alla consapevolezza di non essere unico.
Decide di cambiare vita, rinunciando al suo mestiere di usuraio, anche a costo della propria rovina economica e contro il volere della moglie che, nel frattempo, è andata via da casa. In questo suo gesto c’è senz’altro il desiderio di un’opera di carità ma anche di non essere più considerato dalla moglie come una marionetta.
Anche Anna Rosa, un’amica della moglie che lui conosce poco, gli racconta di aver tentato in ogni modo di convincere la moglie che lui non è lo sciocco che lei immagina e in lui non c’è alcun male.
Vitangelo arriverà alla follia in un ospizio dove, però, si sentirà libero da ogni regola in quanto inizierà a vedere il mondo da una nuova prospettiva. Vitangelo giungerà alla conclusione che, per uscire dalla prigione in cui la vita rinchiude, non è sufficiente cambiare nome perché la vita è una continua evoluzione ed il nome può rappresentarne la morte. L’unico modo per vivere ogni istante è vivere attimo per attimo, rinascendo continuamente in modo differente.
C’è una maschera per la famiglia, una per la società, una per il lavoro. E quando resti solo, resti nessuno. [Luigi Pirandello]
Per Luigi Pirandello la realtà non ci appartiene, appartiene a mille altri che ci incasellano nella versione di noi stessi che percepiscono, negando la vera identità di ognuno di noi.
Uno, nessuno, centomila rappresenta in modo estremamente abile la crisi d’identità dell’uomo del novecento, il quale rasenta i limiti della follia.
Il protagonista, Vitangelo Moscarda, esprime nel suo lungo, e talora umoristico, monologo la propria tragica vicenda: egli ha scoperto di essere estraneo a se stesso. Viene visto e costruito dagli altri a modo loro, in centomila modi differenti. Prende coscienza di non possedere un’unica personalità, bensì tante quante gli altri gliene attribuiscono. Ma chi arriva a scoprire ciò, diviene in realtà nessuno.
La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita. Quest’albero, respiro tremulo di foglie nuove. Sono quest’albero. Albero, nuvola, domani libro o vento: il libro che leggo, il vento che bevo. Tutto fuori, vagabondo. [Luigi Pirandello]
Concludo con le parole di William Shakespeare:
Nascondi chi sono e aiutami a trovare la maschera più adatta alle mie intenzioni.