Sono cresciuta in un tempo ed una famiglia ricca di ritualità: i riti prettamente religiosi: battesimo, comunione, cresima, matrimonio, funerale… ma anche il rito della confessione, che si ripeteva ogni sabato pomeriggio, rigorosamente nel Santuario di Maria Ausiliatrice di Torino.
Non era la nostra parrocchia, di cui mio padre è stato una colonna portante fin da fanciullo; non era neppure la parrocchia di mia madre, dove lei aveva frequentato corsi di teatro e fatto parte del coro da ragazza, e dove i miei genitori si erano sposati. Ma era il luogo dove hanno celebrato il fidanzamento, dove hanno battezzato noi figli, dove ogni sabato si ripeteva il rito della confessione. Sempre con lo stesso prete, carissimo amico di famiglia: Don Cicuta. Come se in quella chiesa assumesse un valore più profondo.
E ricordo ancora il rito della preghiera prima del pasto e prima di coricarsi.
Mi tornano in mente anche tanti riti profani, alcuni erano prerogativa di mia nonna: i marron glacé acquistati rigorosamente dalla Pasticceria Baldi di via Fidia per il giorno dei morti. Nella stessa mattinata, noi bambini con i genitori, ci recavamo al cimitero monumentale per portare i fiori a nonni, bisnonni, zii che non c’erano più. Nel frattempo mia nonna cucinava gli agnolotti al brasato. Sì, tanti rituali sono legati alla religione o al cibo. Il giorno di ferragosto di ogni anno, mia nonna offriva il pranzo al ristorante della piazza di Giaveno. Sempre lo stesso giorno, lo stesso ristorante.
Alcuni riti si tramandano nel tempo e sono comuni a tutti, altri sono legati ad un gruppo sociale: la famiglia, la regione in cui si cresce, altre forme di comunità. Penso per esempio alla promessa scout.
Tornando alla famiglia, un altro dei riti che ha accompagnato la mia infanzia si esercitava solitamente nel tardo pomeriggio del giorno di Natale. Il registratore a bobine al centro del tavolo, il microfono che passava di mano in mano, con un ordine ben preciso, di tutti i componenti della famiglia. Ognuno di noi ringraziava Gesù per i doni ricevuti – a casa nostra non è mai arrivato Babbo Natale, la consegna era delegata a Gesù Bambino – ricordava i momenti più importanti o i traguardi ricevuti nell’anno che stava per terminare, annunciava i buoni propositi per l’anno a venire. Iniziava sempre mia nonna – era lei la vera capofamiglia, almeno da quando sono nata io che mio nonno non c’era già più. Lei ricordava sempre qualcosa di lui, di mio nonno. Era il suo modo per tenerlo vivo in mezzo a noi. Poi il turno passava a mia zia (sorella di mia mamma), in quanto suora era la massima autorità religiosa in famiglia e il Natale lo trascorreva sempre da noi, raggiungendoci da Genova. Seguiva mio padre, mia madre e poi noi figli, in ordine di età. Io, essendo la più piccola, ottenevo il microfono per ultima. Parlavo poco, sempre un po’ offesa, in quanto mi rendevo conto che l’attenzione generale era ormai dispersa ed ero convinta che a nessuno interessassero le mie parole. Inoltre i miei fratelli mi sfottevano sempre.
Potrei proseguire per ore, più ne racconto e più me ne tornano alla memoria, come la domenica mattina quando mio padre metteva in riga noi 3 figli: s’iniziava con alcuni esercizi ginnici (mens sana in corpore sano), poi alcuni cicli di “A-ttenti – ri-poso” e infine si cantava “Fratelli d’Italia”, seguita da “Sul cappello”.
Crescendo ho rinnegato ogni rito, religioso o profano. Mi appariva unicamente apparenza senza sostanza. È senz’altro stato così per molti della mia generazione, cresciuti negli anni ’60-’70. I riti hanno iniziato ad essere considerati gesti vuoti, barbarici, inutili, irrazionali, assurdi. A quei tempi era legittimo il desiderio di cambiamento poiché i riti, molto spesso, risultavano limitanti, formali, frutto di tradizioni obsolete che si trascinavano in modo inconsapevole, creando danni.
Oggigiorno, grazie a chi si è opposto allo strapotere dei riti, noi tutti possiamo decidere in modo autonomo di abbracciare quelli che più ci piacciono. È questo a fare la differenza fra una società che subisce i riti, perché così si fa da millenni, e una che, con consapevolezza, li seleziona.
Con il trascorrere degli anni sono tornata a rivalutare i riti. Mi restituiscono quel senso di appartenenza, senza il quale non siamo nulla.
Il rito è sempre di ordine simbolico in quanto evocatore di significati individuali e/o collettivi.
Non si ha rituale senza simboli.
L’etimologia del termine simbolo proviene dal greco e significa “mettere insieme” sia nel senso di stipulare un accordo che di unire. Nella Grecia antica il simbolo era denominato “tessera di riconoscimento” o “tessera hospitalis”, per cui due individui o due comunità rompevano in due parti una tessera, generalmente di ceramica, alla fine dell’ospitalità e ognuno dei due ne conservava una parte.
Il simbolo serve a mettere insieme, a unire, a legare, a creare un legame. Appartiene all’inconscio collettivo e non al singolo individuo.
La colazione, il pranzo, la cena nel nostro sistema sociale sono momenti rituali che acquistano valore simbolico: è il momento in cui la famiglia si riunisce. E non solo, i posti a tavola sono predeterminati ed esprimono in maniera chiara le relazioni interne al sistema familiare. Il pranzo della domenica e/o delle feste raccomandate a casa dei nonni in cui le generazioni si riuniscono è un rituale a forte valenza simbolica.
Rituali che nella società odierna spesso si sono persi. Una perdita che ha portato quel senso di spaesamento attraverso il quale le persone hanno perso i propri riferimenti domestici e sociali.
Da sempre, i riti aiutano l’uomo a connettersi con qualcosa che trascende la sua individualità e per questo vengono vissuti in modo molto intenso. Inoltre, essendo basati su precise regole, tese a stabilirne tempi e modalità di esecuzione, fanno anche da guida. Essi però funzionano solo se, al di là delle regole, c’è un coinvolgimento di tipo psicologico, fondamentale per poter accedere al loro significato simbolico.