Il viaggio è un fenomeno non solo economico, ma anche psicologico. Da un punto di vista psicologico si può dire che ci sia analogia tra il viaggio inteso come conoscenza di realtà esterne (luoghi, culture, lingua ecc.) e il percorso di conoscenza di sé. Il viaggio, infatti, nelle sue fasi (partenza, percorso e arrivo) rende l’idea della ciclicità della vita e del suo dinamismo. È un’esperienza interiore dell’individuo che richiama la circolarità della vita: la nascita, l’adolescenza, la fase adulta e la morte.
Il termine partenza fa riferimento al verbo partire, la cui etimologia è fondamentale per comprendere come questa prima fase del viaggio possa essere considerata metafora della vita. Il verbo partire deriva dal latino denominativo di pars, parte. Il significato letterario del verbo latino è dividere, separare, da cui deriva il significato più generico di allontanarsi.
È possibile rilevare come il concetto di partenza abbia una duplice significato: nascita e morte. Da un lato la partenza corrisponde alla nascita, perché al momento del parto si verifica una separazione del neonato da sua madre, dall’altro la partenza si connette anche alla morte, in quanto viene considerata una separazione dalla vita terrena.
Al momento della nascita il bambino vive il distacco dalla madre, considerata una base sicura, per avviarsi verso la propria autonomia; un viaggio che si intensifica nell’adolescenza, ma si definisce nell’età adulta. Viaggiare, quindi, rappresenta il superamento delle azioni abituali e quotidiane o anche la rottura dalla routine della vita condotta nel luogo in cui si vive, che denota una base sicura per l’individuo. È anche una possibilità di svago dalla vita lavorativa e quotidiana. Possiamo vivere un viaggio come un’occasione per riconquistare la propria libertà e creatività e la possibilità di riavvicinarsi al nostro Io interiore.
Tutto questo comporta una disponibilità a mettersi in gioco, ad affrontare l’ansia dell’imprevisto e dell’ignoto che ogni viaggio, anche quello più organizzato o vicino, comporta, ad abbandonare la sicurezza di ciò che è conquistato e garantito. Il viaggio ha senz’altro una funzione terapeutica, ma non può essere di per se stesso la cura. La scelta della meta è influenzata da quanto abbiamo imparato a costruire una corretta immagine di noi stessi. Per la risposta dovremmo forse farci aiutare dai consigli di un terapeuta, più che da quelli di una compagnia viaggio.
L’arrivo nella località scelta comporta il raggiungimento di un traguardo, la realizzazione di un’aspettativa. Sentiamo il bisogno di informare subito i nostri amici e parenti sull’andamento del viaggio. Quando raggiungiamo l’albergo, viviamo una situazione di pace e tranquillità. L’arrivo, però, non è il punto finale del viaggio, la stabilità raggiunta. Da questo momento saremo alla ricerca di nuovi traguardi, orizzonti da esplorare, nuovi abbandoni. Le nostre aspettative, create al momento della partenza possono essere confermate o meno in seguito all’incontro con la nuova realtà. Più la realtà somiglierà alle nostre aspettative e più saremo, forse, soddisfatti del nostro viaggio.
Con il ritorno, la fine del viaggio, si chiude il cerchio con il punto di partenza, recuperiamo ciò che già era parte di noi. Inizia la fase della nostalgia.
Per superare la nostalgia legata al ritorno a casa, siamo invogliati all’acquisto di souvenir come ricordo dei luoghi visitati, scattiamo fotografie. Negli ultimi anni, con il boom della tecnologia, le fotografie stanno sostituendo il classico souvenir, e diventano lo story-telling del nostro viaggio.
Il termine souvenir deriva dal latino subvenire che significa venire in aiuto.
Poche righe più sopra ho detto che più l’incontro con la realtà sarà fedele alle aspettative che avevamo costruito alla partenza, più saremo forse appagati dal nostro viaggio. E quel forse si riferiva al fatto che ci sono viaggi che, pur non somigliando per nulla alle nostre aspettative, con i loro imprevisti ci regalano una soddisfazione ben maggiore, svelandoci parti di noi che nemmeno potevamo immaginare. Ci sono partenze per viaggi che non finiscono mai, non prevedono ritorni, ma un on the road continuo.
Nel 1951 lo scrittore statunitense Jack Kerouac scrisse il suo romanzo On the road basato su una serie di viaggi in automobile attraverso gli Stati Uniti, in parte con il suo amico Neal Cassady e in parte in autostop.
«Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati»
«Dove andiamo?»
«Non lo so, ma dobbiamo andare».
Pubblicato per la prima volta il 5 settembre 1957, il libro divenne in seguito un testo di riferimento, quasi un manifesto, a ispirazione della cosiddetta Beat Generation. In una recensione sul New York Times Gilbert Millstein riporta che il romanzo sarebbe stato per la Beat Generation quello che Fiesta di Hemingway era stato per la Lost Generation: il manifesto di un’intera epoca.
Venne pubblicato nel 1957 per la prima volta e la versione in Italia uscì nel 1959, con l’introduzione di Fernanda Pivano. Nel 2017, a 50 anni dalla prima uscita, gli Stati Uniti pubblicato la versione integrale senza i tagli della censura della prima pubblicazione e riportando i nomi reali dei protagonisti, anziché gli pseudonimi. Edizione oggi presente anche in Italia.