Siamo soli. Sempre soli. Ci innamoriamo e pensiamo di essere in due, in due a parlare, sognare, lottare. Di più: quando ci innamoriamo è del mondo che siamo innamorati ed è la stessa vita ad essere d’un tratto comprensibile.
Ma si sa, l’innamoramento è la prima vampata d’un fuoco: dura poco e lascia un po’ di brace giusto per scaldarci l’anima, oppure solo cenere. E allora ci accorgiamo che la nostre voce è nuovamente un assolo, che lo specchio difronte al letto riflette una figura sola.
Generiamo figli e ci rivediamo in loro. Sono il nostro futuro e su di loro ricerchiamo il nostro passato: è un tempo estraneo da loro e non potremo ritrovarlo mai. Sono nati dal nostro corpo, dalla nostra mente è dalla nostra anima e per questo crediamo siano parte di noi e ci contengano. Ma nemmeno parlano la nostra lingua. Cerchiamo disperatamente di trasmettergli i nostri valori, ideali, idee, certi che qualche nostra traccia almeno resterà. Va già bene se un giorno molto lontano, quando noi nemmeno ci saremo, capiranno un poco del bene che gli abbiamo voluto. L’amore di un genitore è unidirezionale. Speriamo almeno d’avergli insegnato a sopravvivere; ma la vita cambia così in fretta che imparare di cosa ci siamo cibati noi, non gli serve a nulla.
E allora? Torniamo soli. Torniamo a capire che siamo soli. Parliamo da soli, ci specchiamo da soli, ci innamoriamo da soli. Il resto è un’illusione per cacciare la paura.