Prima dell’invenzione della stampa – che facciamo risalire al 1455, anno di pubblicazione della cosiddetta Bibbia di Gutenberg – l’unico modo per ricopiare un libro era copiarlo a mano.
Nell’antichità greca e romana questo lungo processo era affidato a schiavi, chiamati literati, che lavoravano al servizio di privati cittadini o del pubblico. Spesso si riunivano all’interno delle officine dei venditori di libri. Lo schiavo che aveva ben appreso la calligrafia, poteva diventare librarius (copista), amanuensis o servus ab epistolis (schiavo segretario). Un esempio di un’officina per copisti interna ad una libreria è stato scoperto a Pompei.
Gli schiavi che si specializzavano nella copia dei testi cessarono di esistere solo col diffondersi del cristianesimo. Con le invasioni barbariche questa professione finì per essere coltivata quasi esclusivamente nei monasteri: San Girolamo fin dal IV secolo l’aveva indicata fra le occupazioni più adatte alla vita monastica, e due secoli dopo Flavio Magno Aurelio Cassiodoro fondò a Squillace, in Calabria, il Monastero di Vivario dedicato allo studio e alla scrittura ove istituì uno scriptorium per la raccolta e la riproduzione di manoscritti. Successivamente tutti i monasteri medievali si ispirarono a questo modello.
Lo studio della calligrafia era prescritto dalle regole monastiche e fu incoraggiato dai più celebri vescovi e monaci dell’Occidente. Le prime nazioni europee dove tale attività si diffuse furono l’Italia, fin dal V secolo, l’Irlanda e la Scozia (fin dal VI secolo); Carlo Magno dette un nuovo decisivo impulso incaricando il monaco Alcuino di organizzare nella sua corte laboratori di copia e scuole di calligrafia che divennero centri di diffusione della cultura europea.
Lo scriptorium era una grande sala solitamente accanto alla biblioteca o all’interno di essa. Era obbligatorio il silenzio e vi potevano entrare solo i superiori, il bibliotecario e gli amanuensi. Questi, fino anche ad un numero di trenta, sedevano in piccole postazioni, su sgabelli dinanzi a tavole apposite, poste davanti alle finestre che generalmente davano sul chiostro. Riproducevano ciascuno un manoscritto diverso o le singole parti di un’opera, oppure scrivevano insieme sotto dettatura dell’armarius (bibliotecario).
La luce naturale era preziosa e gli amanuensi scandivano le loro giornate fra le preghiere e il lavoro di copiatura e trascrittura evitando di lavorare con la luce artificiale delle candele per il timore di poter danneggiare il manoscritto.
Il testo veniva scritto solitamente su fogli di pergamena tagliati fino alla dimensione appropriata. Inizialmente veniva impostato il foglio di lavoro tracciando linee sottili con uno strumento in legno, successivamente l’amanuense procedeva con la trascrizione delle parole usando una piuma d’oca dal fine pennino e dell’inchiostro nero. Successivamente intervenivano i correctores che avevano il compito di confrontare il testo copiato con l’originale in modo da evidenziare eventuali errori o dimenticanze. Infine i miniatores si occupavano dell’illustrazione. I fogli venivano poi rilegati inserendoli in copertine chiamate piatti, costituite da cartoni rigidi, che potevano essere di legno o cartone.
A partire dal XIII secolo, accanto alle scuole monastiche, si sviluppò l’industria degli scrittori di mestiere, riuniti talvolta in corporazioni, che gareggiavano in attività coi monaci. Grazie a questa sorta di competizione aumentò notevolmente la quantità di opere in circolazione. I monasteri iniziarono a servirsi con sempre maggior frequenza di scrittori stipendiati, sebbene in Italia essi fossero sempre esistiti accanto a scuole, università, studi dei notai. Molti studenti delle università italiane copiavano per proprio uso o per commissione e con tali guadagni si mantenevano gli studi. Anche grandi scrittori e poeti copiarono testi e se li scambiarono, come ad esempio Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio.